Il racconto di Renzo
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Nel ‘78 iniziai a lavorare nel manicomio di Pergine dove conobbi un paziente di nome Giancarlo. Per tutti era semplicemente folle: pensava di essere il protagonista di una spy-story, costantemente perseguitato e minacciato da nemici invisibili che però erano ben presenti nella sua mente. Quando lo conobbi io, Giancarlo girava nudo per il reparto, mangiava con le mani, e si chiudeva in sè stesso.
Grazie alle medicine finalmente migliorò, iniziò a parlare molto con me e a chiedermi di poter tornare a casa; così decidemmo di dimetterlo e continuare a seguirlo nella sua abitazione aiutandolo a cercare un lavoro che potesse consentirgli di ritrovare dignità, scopi e voglia di vivere. Dopo il ritorno di Giancarlo a casa non solo ho continuato a seguirlo, ma con lui ho anche stretto un legame di amicizia: siamo andati più volte a pescare assieme al lago di Santa Giustina, cosa che Giancarlo amava fare.
Purtroppo nonostante gli sforzi, le lettere e le telefonate nessuno voleva assumere Giancarlo, il quale, nonostante sia un “gracile mentale abbastanza elevato” come recitano i referti medici, era abbastanza acuto per capire che quella che stava vivendo non era una vita degna di essere vissuta. Così dopo qualche tempo scomparve e il suo corpo venne ritrovato nel lago nel quale amava andare a pescare e sul sentiero che portava al lago un biglietto: “Viver a che po’?” (per cosa vivere?).
Dopo questa esperienza ho rafforzato la mia idea che la malattia mentale non vada curata solo con un trattamento farmacologico, e stando il più possibile a fianco della persona. E soprattutto ho capito che l’idea che psichiatra e paziente debbano mantenere una certa distanza va superata: è possibile e spesso auspicabile stringere un’amicizia con le persone nel disagio un rapporto di amicizia, cosa che non avviene quasi mai tra curanti e curati, ma che io ho iniziato a praticare spesso e volentieri dopo l’esperienza con Giancarlo.