Il racconto di Franco
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I pregiudizi che più mi hanno influenzato nella mia vita non sono tanto legati ad esperienze di contatto con culture diverse, quanto ai meccanismi di strutturazione dei gruppi (amici, scuola ecc…) della mia gioventù.
Da tipico adolescente ho condiviso in modo acritico i valori reputati decisivi nell’acquisire diritto di appartenenza all’uno o all’altro dei gruppi in cui ho vissuto. All’appiattimento su questi valori – abilità sportiva, politica, successo sentimentale… - era connesso lo sprezzo nei confronti di coloro che non brillavano in questa sorta di “gara” su quella precisa scala valoriale. Io non li vedevo, in realtà; vedevo solo i loro supposti limiti. Li trasformavo in stereotipi del fallimento. Quanti compagni ho considerato, allora, non all’altezza, privi di qualità... Quanta arroganza! E quanta sorpresa, (e vergogna) quando, magari trent’anni dopo, mi capitava di incontrarli, e constatavo come le loro vite fossero spesso riuscite, ricche, interessanti… non diversamente dalla mia!
Nel frattempo, ero cambiato. Persa la mia arroganza adolescenziale, ero più attento ai destini degli altri – anche grazie alle esperienze all’estero, con il loro corollario di piccole umiliazioni, emarginazione, il necessario approccio relativizzante dato dall’ accostarsi ad una cultura diversa. Ma, proprio per questo, quanto turbamento in quegli incontri. Vi divenivo consapevole del fatto che, a suo tempo, mi ero piegato alle imposizioni del gruppo, al pregiudizio dominante, smarrendo la mia facoltà di giudicare e allineandomi, di fatto, alla tracotanza della piccola élite che, di volta in volta, dettava i parametri dell’appartenenza. Comportandomi in modo non dissimile da chi, con la propria acquiescenza, aveva consentito di imporsi ai peggiori regimi. Ed ogni volta, ad ogni ritrovo, provavo il brivido dell’aver guardato l’abisso di cieca crudeltà che si trova in ognuno di noi. E, insieme, il sollievo di essermene almeno accorto – anche se tardi.